NAT SCAMMACCA
ANTIGRUPPO
EDITORE CELEBES
21
Ventun Punti
1
Primo traguardo di un poeta non deve essere
la forma o il linguaggio, ma il tono con il
quale egli, poeta, si esprime.
Il nostro orecchio coglie subito il tono di una poesia quando questo è espresso giusto, cioè quando il poeta ha artisticamente intuito una fra le possibili migliori espressioni. Né le parole, né la forma creano questo tono, ma un insieme di atteggiamenti colti nel momento giusto; generalmente, la vera espressione si coglie dalla lingua parlata perché la lingua parlata è Punica a darci il modo migliore di esprimerci e perché implica la totale partecipazione del l’individuo al modo primitivo di espressione linguistica. Una espressione letteraria impersonale non riuscirebbe mai ad ottenere il giusto tono, perché il giusto tono è particolare, ed è particolare ad un individuo.
2
Non è la forma che crea il capolavoro ma l’atteggiamento del poeta stesso.
Importante è che l’autore di uno scritto sia in continua contestazione e perciò sia l’atomo singolo che preme contro gli altri atomi organizzati e disciplinati e che cerchi di scompigliarli con il suo atteggiamento di contestazione; che crei il caos e modifichi la loro organizzazione che a sua volta richiederà una riorganizzazione; senza di lui, senza questo atteggiamento dello scrittore non avverrebbe, infatti, alcun mutamento o miglioramento. Il mutamento anche se per un lavoro impersonale può sembrare peggioramento è sempre più valevole del non cambiare. Il peggior male dell’esistenza, in verità, è il non cambiare, il rimanere fermi, la posizione fissa, la posizione acquisita con l’autorità, è insomma tutto lo status quo. Ecco dunque perché l’atteggiamento negativo del poeta di fronte allo stato delle cose è una delle qualità principali per uno scritto importante e valido.
3
Il poeta deve essere pronto a polemizzare e deve essere contrario ad accettare qualsiasi tipo di autorità espressa sia da un capogruppo, da una etica poetica, da una religione o dalle varie case editrici:
a) viva tutti i presumibili sottoboschi letterari, l’espressione degli insignificanti è democrazia diretta;
b ) libertà totale agli enti, alle comunità, agli individui di periferia;
c) che il governo locale appoggi con un fiume di denaro gli scrittori locali e le loro iniziative;
d) più energia, più appoggio ai movimenti centrifughi! abbasso tutti i movimenti centripeti!
e)che i peggiori scrittori, i balbuzienti suonino pure la loro campana imparando da quel suono il linguaggio;
f) che la polemica infuri! abbasso i capigruppo e gli scrittori importanti e i poeti più bravi!
g) riconoscere a parità di merito la protesta degli scrittori, dei contestatari di piazza (che non scrivono), degli studenti e di tutti gli Ultimi; ridimensionare il concetto di scrittore che non fa più parte di una classe privilegiata, una classe di pochi, perché oggi, tutti sappiamo leggere e scrivere;
h) che niente sia sacro! le istituzioni considerate sacre siano i primi bersagli;
i) che ogni cosa sia diversa da un’altra; che si insista a mettere in rilievo le differenze e non le somiglianze tra i pensieri, i sentimenti, le persone, gli scrittori, i governi, i popoli.
Ammesso che le abitudini abbiano una funzione fondamentale per la vita e per la sopravvivenza dell’uomo, sia come individuo o come componente della società degli uomini, dobbiamo tener presente che l’uomo comune segue sempre la pista delle abitudini anche quando queste abitudini diventano controproducenti e sono pesanti remore per il progresso della civiltà; l’uomo rimane legato alle sue abitudini fino a creare condizioni sociali assurde nelle quali brancola ciecamente, si dispera, ma rimane totalmente incapace di spezzarne la struttura e modificarla. Ancora peggio è il caso in cui l’uomo non si accorge che queste abitudini lo soffocano e lo tengono a livello animalesco dell’esistenza, come succede in una società primitiva agreste quale quella dei siciliani che vivono ai margini del mondo industriale ignorando il benessere del mondo moderno perché incapaci, per tutte le abitudini che li soffocano, a stendere la mano e afferrare quel benessere. Peggio ancora quando tra questi uomini ci sono anche quelli più istruiti e quelli che occupano una posizione di comando che preferiscono non allungare la mano per fare qualcosa perché tutta questa palude, quest’acqua stagnante significa vivere tranquilli e pacifici anche se soltanto in seno alla loro classe, e accettano queste condizioni per abitudini pur sapendo che, se le cose cambiassero, essi diventerebbero dieci volte più ricchi, più potenti; chiudono così il cerchio vizioso da dove si può scappare soltanto con la emigrazione. Se questi uomini, a causa delle proprie abitudini, pur avendone l’occasione, non desiderano cambiare le cose e migliorarle, a chi il compito di contestare e protestare? Allo scrittore ed essenzialmente al poeta. Non si deve creare il contenuto di un discorso perché il contenuto è presente in noi e attorno a noi; dalle cose che non accettiamo attingiamo la ragione per scrivere e non solo la ragione, ma anche l’impulso, la spinta e, direi, l’istinto.
Ecco perché, come ho già detto, la polemica è il tessuto dei capolavori. Se gli scrittori e i poeti non comprendono questa fondamentale necessità di polemizzare, allora, il mondo e la società ritornerebbero alle condizioni nelle quali si trovavano i cinesi centinaia di anni fa, quando i secoli passavano senza apportare alcun cambiamento. Affinché gli scrittori e i poeti siano in continua contestazione è importante che gli individui scrittori non si accordino tra di essi e che vivano nel caos letterario e che ciascuno di essi offra la propria interpretazione della situazione sociale, il suo modo di risolvere i problemi che in essa esistono, così che le masse possano vedere quella situazione non soltanto da un lato ma da tutti i punti di vista dei diversi scrittori e poeti affinché in essi, lettori-massa, nasca irrevocabilmente la comprensione della verità complessiva della loro stessa esistenza in una società di uomini. È assoluto dovere dello scrittore creare una nuova religione, una nuova moralità della contestazione, che non lasci più tranquille le persone contente.
Anche se esistesse Dio, egli vorrebbe proprio questo dal poeta, che l’uomo rimanesse il bambino che nascendo dice no e questo no fosse una verità accettata perlomeno dagli scrittori se non dalle persone che stanno in poltrona. Annuncio perciò, da queste pagine, questa nuova religione secondo la quale gli scrittori non debbono più permettere a coloro che sono ben vestiti, a coloro che si godono la vita a discapito degli altri, di bendare gli occhi ai loro simili e certe volte anche agli scrittori stessi, accettando lo status quo, lo status quo che è la condizione peggiore per un uomo. L’uomo vive sulla terra soltanto pochi anni e non deve abbandonarsi, anche se sa che Dio non esiste, e non deve perdere completamente la speranza nella propria esistenza. Deve essere l’uomo a scoprire la sua eternità in questo mondo, paradosso dei paradossi, un essere eterogeneo che diventa eterno, che cambia e rimane lo stesso di prima; deve essere l’uomo a crearsi un paradiso sulla terra, ma non quel paradiso sognato da tutte le religioni. Il paradiso dell’uomo deve consistere nella partecipazione, nell’ essere un individuo differente da tutti gli altri, ogni uomo in sé un mondo individuale, ogni uomo in sé un Dio.
Se c’è quel tizio che protesta e dice, « ma io voglio vivere in pace, so che la mia esistenza finirà e perciò voglio vivere tranquillo accettando le cose così come sono » si deve rispondere:no e assolutamente no. Quel tizio non deve fare altro che trovare una pistola e spararsi perché egli non vuole lottare per diventare un Dio.
Se accetta la sua vita effimera, ombra di un’ombra sfuggente nel tempo,ciò che esiste e non esiste, ciò che esiste e non esisterà mai per sempre e sempre, egli certo non vale niente e a un simile nichilista non resta altro che suicidarsi.
4
Il poeta deve sempre basarsi sulle proprie esperienze piuttosto che su nozioni impersonali o dialoghi intellettuali dialoghi intellettuali.
Questa tesi sostiene l’enfasi sul ’individualismo, su opinioni o proponimenti enunciati soltanto dal’individuo e mai per delega dal capogruppo o da un critico filosofo come Croce o da un critico di estetica. La critica è sempre un’arte derivata, forse tra le più basse e più volgari, la quale tende ,anche se “paternalsticamente”, sempre di sopraffare l’artista in questione, piuttosto che essere sottomessa a lui. La critica non deve esprimere solo l’opinione di un uomo; per essere critica valida dovrebbe riassumere l’opinione di milioni di persone.
Non accettiamo nessun corpo letterario la cui testa pensa per gli altri, dirige i movimenti delle membra-gruppo, privandole della libera espressione che è unica vera espressione artistica.
Sosteniamo la comunicabilità prima di ogni cosa, la comunicabilità tra individuo e individuo o tra individuo scrittore e società, società massa operaia, contadina e classe media. Posizione assurda è quella di alcuni che preferiscono tagliare la propria gola e strappare la propria lingua pur di non dare al’altro individuo la possibilità di sentire e di comprendere, e questo è il caso dei gruppi di avanguardia italiana. Essi sono i primi colpevoli, sostenitori degli scritti generici e impersonali, sempre alla ricerca di una oggettività simile al caos del mondo nel quale vivono e che, in verità, li esclude e perciò nega loro la facoltà di ’’calarsi” nel’ unica realtà rappresentata da essi stessi.
5
Che ognuno accetti la realtà dell’altro; non imponendo, perciò, la propria realtà, la propria esperienza, i
propri principi, la propria poetica, il proprio linguaggio.
Nel giudicare gli scritti di un’altra persona si deve, in primo luogo, cercare di accettare la realtà di quella persona sia come individuo che come insieme di principi. Non si tratta, perciò, di mettere in dubbio, come potrebbe fare un qualsiasi critico-pignolo, il perché lo scrittore abbia usato tale parola invece di tal’altra; ma una volta che lo scrittore si è espresso in quel modo, accettare la realtà quella che è (egli, però, potrebbe anche accettare la mia realtà ).
Ci sono molti modi per risolvere dei problemi e raggiungere dei traguardi. Il mio è uno, e lo difendo, e credo sia il migliore per raggiungere la mia felicità relativa. Su un livello politico, potremo dire, per esempio, che per raggiungere una felicità relativa, un popolo usa un metodo politico, economico ecc…, mentre un altro popolo ne usa uno diverso. Credo che sia intelligente accettare entrambe le realtà
— si potrebbe dare ad esse più o meno valore ma è meglio accettarle senza anteporre la propria realtà —.
Il mondo, oggi, è così eterogeneo, espresso su vari livelli di realtà che noi non siamo più capaci di accettare un solo modo di vedere le cose o per dirlo più chiaro, tutta l’esistenza. Dico, anzi, che il mondo potrebbe essere visto in una decina di modi diversi: sia a livello fisico, o filosofico, o psicologico, o scientifico, o letterario ecc… Ognuno di essi una realtà con pregi atti a descrivere, spiegare e risolvere problemi e quesiti scientifici e artistici.
Non è questione di convincere l’altro, ma semplicemente un processo per fare accettare al’ altro la tua realtà, dato che l’altro non cambierà mai la sua realtà con la tua. Ripeto, questo processo non avverrà. Ogni essere umano è un piccolo mondo in sé ed è terribilmente geloso di questo suo mondo intoccabile. La sua realtà, potrebbe, al massimo, far scoprire nella realtà dell’altro tutte quelle cose che erano rimaste nel’ombra o che quel’ altro non aveva scoperto da solo; gli si dà, così, la possibilità di rivalutare se stesso e la propria realtà. La vera comunicabilità tra due individui-mondi non esiste, perché se esistesse io diventerei ”tu” e tu diventeresti ”io” col risultato della distruzione di entrambi.
A questo punto il lettore potrà chiedere come mai io insista sulla comunicabilità quando affermo che la vera comunicabilità non esiste. Semplice: la vera comunicabilità non esiste e noi dobbiamo contentarci di quest’altra che potremo chiamare pseudo-comunicabilità, quella cioè di cogliere le vibrazioni della luce, del suono che fanno vibrare in noi, noi stessi, che ci fanno conoscere noi stessi e perciò indirettamente tutta l’esistenza esterna. E qui ricorderemo che ogni particella dell’esistenza è una monade che in se stessa riflette il mondo perché è simile al mondo (anche essendo particolare e individuale); allo stesso modo la particella e, l’uomo, guardando allo specchio il riflesso di se stesso, riesce a vedere gli altri, cioè mette in luce se stesso nel processo di conoscere gli altri. Noi siamo perciò esseri eterogenei e dobbiamo desiderare di rimanere tali e non sperare in una comunicabilità che possa distruggere il nostro individualismo.
Ogni cosa in sé è una cosa diversa; questa è la ragione secondo la quale non si dovrebbe accettare la tesi dei fisici, i quali scioccamente affermano che le particelle atomiche, base della nostra esistenza, sono identiche e non importa a chi appartengano: esse sono talmente simili che il tempo stesso potrebbe andare sia avanti che indietro. Basta solamente un piccolo ragionamento per far cadere questi castelli scientifici di carta: noi siamo talmente grandi che non possiamo vedere la differenza tra un elettrone e l’altro, ma la differenza esiste ed è complicata come lo è la differenza tra un essere umano e l’altro.
La realtà di ciascun individuo è separata da ogni altra e va esaminata soltanto esaminando se stessi, notando le differenze e le somiglianze, scoprendo in se stessi con l’aiuto dell’altro, cose prima sconosciute. Questo è il valore della comunicabilità.
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Dare più enfasi alle espressioni concrete che a quelle generiche.
Le lingue primitive, prima di cristallizzarsi in forme poco elastiche, in generale ,erano formate da parole che subito creavano nella mente una immagine concreta delle cose di questo mondo e dell’esistenza stessa. Esempio di tale linguaggio sono L’Iliade e la Bibbia.
Le lingue moderne incorporano, invece, parole generiche che in poesia hanno una funzione negativa. Prendiamo ad esempio le parole infinito, amore, bellezza, paradiso, infelicità ecc… sono parole che molti scrittori, oggi, hanno il difetto di mettere nelle loro poesie e non soltanto i poeti inesperti sono colpevoli di ciò, ma anche quelli dell’avanguardia, anzi questi ultimi, direi, sono i veri colpevoli, perché il lettore non arriva a comprendere il significato di una loro frase dove queste parole si susseguono senza nesso logico.
Tra gli scrittori del periodo romantico, Keats fu il più capace nella creazione di immagini concrete e Shelley il più incapace perché, anche se bravo tecnicamente, la forma della sua poesia rimane vuota a causa delle immense pause create da parole generiche che per il lettore non hanno alcun significato. Ogni scritto deve creare un immediato contatto con il lettore, deve essere una vera esperienza per il lettore, il quale arricchendo la sua personalità può nei rapporti con gli altri uomini servirsi di quella esperienza evocata.
7
Dare più importanza al contenuto che alla forma.
Forma prima e contenuto dopo? Contenuto prima e forma dopo?
Questa è l’eterna questione. E qui forse è meglio vedere il problema attraverso la filosofia della psicologia e la filosofia della fisica. Quando nel grembo materno il bambino prende forma, cosa viene prima, il contenuto, protoplasma, o la forma dell’uomo?
È la forma a priori? Mai la madre potrebbe intervenire in quel naturale processo del contenuto, protoplasma, o della forma che, aprioristicamente o no, per natura, si sviluppa in quel’individuo che è nel suo grembo. Certo l’individuo avrà forma di uomo, questa aprioristicamente è una verità; la forma, in questo senso, preesiste ma non preesiste il fatto che il naso di quel’uomo avrà una certa lunghezza, né che i suoi occhi avranno un colore azzurro o nocciola; tutto questo avviene per puro caso quando uno sperma tra milioni sale la china nel processo di concepimento. E anche se l’uomo potesse decidere quale sperma dovesse impregnare l’uovo, gli occhi, il naso, ecc. avrebbero quel colore e quella forma per puro caso, perché non è la volontà dell’uomo a creare questo fatto a priori, ma dipende dagli urti, dalle combinazioni e dalle strutture delle cellule, degli atomi, degli elementi di cui è formato quel’uomo.
Spostiamo ora questi termini al poeta e alla sua potenziale poesia. Sappiamo già che gli impulsi per se stessi come onde di un mare agitato s’infrangono sulle rive e sulle spiagge dell’essere e che alcuni tentacoli dell’ego caotico escono e s’indirizzano come un fiume di sentimenti verso un obiettivo.
Dal modo di scorrere di questo fiume dipenderà il fatto se la poesia sarà un capolavoro o meno. Come lo sperma che sicuramente prenderà forma di uomo, la poesia dovrà avere il linguaggio e le parole del poeta francese, inglese o italiano che esso sia; sì, questo è deciso a priori alla poesia; altra realtà a priori è inoltre il fatto che sarà una poesia. Tuttavia il corso di questo fiume di parole-poesia non potrà mai dipendere da una meccanica decisione ed essere una poesia di alto valore; non si potrà dire prima, perciò, se la poesia sarà composta in decasillabe o in rima baciata. In ogni modo, queste condizioni toglierebbero alla poesia la vera essenza creativa.
Invece la poesia avrà i capelli di un certo colore, così, naturalmente e non deciso da una forma automatica e prescelta. Il poeta veramente consapevole dei suoi mezzi non sottoporrà perciò il suo componimento ad un eccessivo controllo intellettuale con una scelta di forma a priori, ma avendo, col tempo, acquisito abitudini ed essendo passato attraverso diverse esperienze artistiche, nel momento della vera creazione della poesia egli, poeta, si sentirà immerso in una realtà più vera di qualsiasi altro momento della sua esistenza e questa realtà si tra sformerà in realtà-poesia attraverso una spontanea intuizione, divenuta spontanea ed intuizione per le seguenti ragioni:
1 ) capacità tecnica;
2) libertà di esprimere i propri sentimenti;
3 ) una leggerissima guida invece di un pesante controllo intellettuale al punto, quasi, da poter dire che la poesia scrive se stessa;
4) un trascendere dell’intero essere del poeta nel quale sono armonizzate in altissimo rapporto di vibrazione, di consapevolezza,
di avvertenza, tutta la realtà e tutte le qualità dell’essere umano:
a) sentimenti;
b) passioni;
c) intelletto e abitudini;
il tutto attraverso una sublimazione del sesso. Inutile negarlo, questa è la verità, anche se molti si rifiutano di riconoscerla. Noi siamo quelli che siamo e il nostro istinto sessuale è un punto fondamentale nella creazione poetica.
8
Più peso alla passione che dell’intelletto perché la poesia guidata dal puro intelletto si allontana dal lettore di massa.
Perché è importante la passione più dell’intelletto? Perché la passione è la sostanza dell’individuo stesso. È naturale che esistano due estremi da evitare; primo, lasciarsi andare agli impulsi ciechi non ancora capaci psicologicamente di seguire una precisa pista, una direzione positiva con un obiettivo oggettuale; quando cioè il poeta si abbandona ad atteggiamenti schizofrenici e freudiani e si esprime su un piano di limitata comprensione e con espressione artistica idonea soltanto tra le mura di un manicomio; secondo, si può salire a un livello puramente intellettualistico e perciò ridursi a un espressione pallida derivata e copia di quella vera e viva.
Gli estremisti linguistici di un metodo intellettualistico sono molto evidenti in tutte le espressioni specializzate come ad esempio le scienze, la fisica e la matematica e anche certa letteratura di avanguardia i cui scrittori intellettualistici tendono, creando simboli, ad escludere da ogni partecipazione l’uomo di massa. A questo punto c’è da dire che l’arte piuttosto che rimanere esclusa dalla scienza, dalla matematica, dalla fisica, dalla letteratura d’avanguardia deve conquistare queste scienze cosicché, per esempio, il fisico-artista possa descrivere il mondo degli atomi in un modo tale che una teoria come quella della relatività diventi comprensibile e perciò proprietà comune a tutti gli. uomini.
9
È necessaria l’assenza di qualsiasi “paura”, la piena libertà e la lotta aperta contro coloro che sostengono lo status quo.
Troppo spesso il poeta e lo scrittore si rifiutano di scrivere o di dire quello che pensano perché ciò potrebbe mettere in pericolo la loro carriera di scrittore e di poeti. Basta, infatti, urtare qualche giornalista o qualche direttore di una qualsiasi casa editrice, o magari uno scrittore influente per bloccare il proprio avvenire. Molte volte avviene che lo scrittore esageri tali pericoli non prendendo, così, una posizione a favore o a sfavore di una qualsiasi tesi, e assumendo, perciò, anche senza volerlo, una posizione letteraria qualunquista.
La vera colpa di questo modo di pensare e di agire è sempre dei giornalisti e degli scrittori affermati che, pur professandosi uomini liberi e agendo in tanti altri casi da uomini liberi, lo stesso creano attorno a loro un mito di irraggiungibilità. Un uomo veramente libero, un uomo veramente onesto deve riconoscere il marciume, il difetto della sua posizione e soltanto allora l’uomo-scrittore-giornalista non sarà strumentato di una posizione di autorità, parte cioè del’establishment nel quale si trova.
E non dobbiamo sogghignare davanti ai russi o ai cinesi che nei loro paesi instaurano l’autocritica. Certo alla autocritica forzata è sempre da preferire quella volontaria che tiene l’uomo-giornalista-scrittore in guardia e facendogli desiderare la libertà e dandogli la forza di non creare un clima di paura.
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Un atteggiamento anarchico invece di una posizione letteraria stabilizzata e autoritaria che, con la complicità di qualche critico, strumentalizza i mezzi di comunicazione, arrecando grave danno al lettore.
È necessario Patteggiamento polemico artistico che mette in dubbio le posizioni più accettate, in modo che il lettore, dopo una attenta lettura, non accetti, quale lettore-pecora, la pappa propinatagli per proteggere gli interessi dello status quo e perciò capitalistici; una assoluta enfasi su tutto Patteggiamento dello scrittore, sulla sua moralità, la sua posizione in relazione alle cose piuttosto che alla valorizzazione del modo di scrivere stilisticamente e formalmente. Non importa quale forma lo scrittore impieghi ma sono importanti gli atteggiamenti personali dello scrittore. Un critico letterario può ritenersi ed essere ritenuto onesto, sincero, veritiero, eppure può commettere sempre un fondamentale errore perché sempre approfitta di tutti i mezzi di comunicazione che gli vengono messi a disposizione affinché i suoi pensieri diventino leggi; leggi autoritarie che non permettono ad altre espressioni più deboli di gareggiare con lui dato che non possono partire da una piattaforma di diffusione come la sua.
Egli, critico affermato, accettato e divenuto autorità detta leggi e, anche se cerca di negare il fatto, segretamente in cuor suo si gloria al pensiero che la sua voce abbia un gran peso su tutti gli altri e disprezza questi altri che non sono riusciti a sollevare la testa, li disprezza perché sa che quando gridano e protestano, la loro voce può raggiungere soltanto un numero limitato di ascoltatori e di lettori .
La propria logica porta il critico a pensare che non si può permettere a tutti di esprimere la propria opinione poiché alla cima della piramide letteraria c’è spazio per pochi e solo a questi pochi spetta il privilegio di spandere su un vasto e largo raggio la propria parola .
Quale soluzione dunque a questa situazione? La soluzione dipende dagli stessi critici che, invece di ignorare tutti quei manoscritti che giacciono sulle loro scrivanie e che raccolgono polvere, solo perché essi non li ritengono meritevoli di attenzione, potrebbero tentare di pubblicarne alcuni e così dare voce agli sconosciuti anche se poco meritevoli. Ma chi dei critici, lassù, avrebbe il coraggio di fare una cosa simile? Essi sanno che le pagine delle riviste a disposizione sono poche e che le grandi case editrici stampano un numero limitato di libri e perciò non sanno frenare la tentazione di accaparrarsi questi mezzi di comunicazione e chiudere la porta in faccia ai ’’nuovi”. Si tenga presente che questo sistema letterario non viene creato soltanto dalla struttura capitalistica, ma dai critici stessi che si dicono comunisti, anarchici e che, una volta inseriti nel sistema, sollevano mura di esclusività che racchiudono il privilegio per i primi, i migliori, e soltanto per essi. Punto cardine, nel campo letterario, sarebbe quello di eliminare l’immorale azione di premiare i migliori, dando alloro sempre i primi posti riconoscendo solo a loro il diritto di comunicare con il lettore.
È proprio questo che avvilisce gli altri e li fa sentire confinati alla periferia, che li fa ritorcere su se stessi in un ristretto ambiente senza alcun contatto rinnovatore con gli ambienti più progrediti e più agguerriti. In verità se ci fosse uno scambio di pensieri e di espressioni si potrebbero scoprire vari scrittori di periferia che scrivono tanto bene quanto quelli che stanno al’apice della famosa piramide.
1 L’articolo pubblicato nel maggio 1970 sull’« Espresso » da Umberto Eco a difesa della grande editoria e di quei pochi scrittori a servizio dell’ establishment c contro tutti gli altri meno bravi è un esempio perfetto di ciò che sto dicendo.
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Che la forma sia l’estensione del contenuto e perciò libera espressione del contenuto. Peso,dunque, sulla spontaneità che su una formalistica espressione creata a priori e che deforma l’espressione artistica.
È ovvio che i giovani non possono venirci a dire: i nostri scritti aderiscono alla formula predetta dunque, sono capolavori. Ci sono, infatti, migliaia di giovani che sentono il bisogno di scrivere quando sono innamorati; è scontato che tutti dicano sempre la stessa cosa e che i loro lavori siano troppo ingenui e manchino di mezzi di espressione e di una certa esperienza artistica: non possono avere, dunque, un valore artistico. Se, invece, uno scrittore, magari comunissimo, fa delle prove continue e riesce col tempo ad acquisire delle abitudini elastiche, dei mezzi consistenti, allorché si troverà nel momento giusto in cui sente il bisogno di dire qualcosa, in cui ha qualche passione e se stesso da esprimere, si esprimerà spontaneamente ma carico di quelle abitudini di espressioni artistiche già acquisite.
È necessario certo non ignorare l’importanza della prima volta quando il poeta sente il bisogno di sublimare una sua passione in poesia; proprio quello infatti, è il momento in cui il giovane scrittore dovrebbe essere incoraggiato. In certo senso durante l’anno 1957 la Fiera Letteraria ebbe in Italia proprio questa funzione, ma incoraggiava i giovani in modo troppo paternalistico. Saper incoraggiare i giovani, infatti, è cosa molto difficile. Questo compito, a parer mio, dovrebbe essere lasciato alle scuole. A cominciare dalle scuole elementari necessariamente ogni istituto dovrebbe avere il suo piccolo giornale sul quale, sin da bambini, si possa imparare ad esprimere le proprie idee; sul quale il bambino possa vedere stampate le sue creazioni che per lui valgono sicuramente quanto gli scritti del migliore scrittore d’Italia. Ma perché si ottenga una cosa simile si dovrebbe cambiare sia la politica che la legge italiana, la quale impone il proprio controllo anche su un giornalino scolastico, ostacolando con tutta la pesante burocrazia anche la libera espressione di bambini appena usciti dalla culla.
Qualsiasi ostacolo alla libera espressione di stampa dovrebbe essere interpretato non-costituzionale. Ogni scrittore dovrebbe avere la libertà di descrivere qualsiasi altro scrittore come egli lo vede, e se lo vede come un diavolo, che lo dipinga pure così, interessante, però, che gli si dia l’opportunità di rispondere liberamente sullo stesso mezzo di diffusione. Il giornalismo, allora, diventerebbe molto più interessante anche se, in certi casi, più volgare. Inoltre non dovrebbe essere permesso a nessuno di ripararsi dietro il paravento legale di una legge insulsa come quella della querela per diffamazione.
Quando lo scrittore immerge il contenuto del suo discorso in forme che seguono tale o tal’altra moda, destinata col tempo a passare, quella forma che egli credeva innovatrice e molto diversa dalle precedenti, in verità, diventa la bara dei suoi scritti. Soltanto quegli scrittori che riescono a superare le costrizioni di forma suvvivono e generalmente, sono coloro che per la propria spontaneità e per la ricchezza del proprio individualismo non possono conformarsi alle regole.
Più la forma è complicata e stabilita a priori, meno il poeta riesce a sopportare il peso del tempo. A questo punto, lo scrittore di avanguardia fa le sue obiezioni e dice: « la lingua stessa è forma e perciò bisogna distruggere questa lingua se vogliamo distruggere tutto il modo di pensare dettato da una società capitalistica che fino ad oggi prevale nel nostro paese ».
Ma questo è un ragionamento da sofisti; perché agire così significherebbe annullare la propria esistenza, annullare le esperienze accumulate attraverso generazioni, attraverso migliaia e migliaia di anni; significherebbe volere ignorare la ricchezza che l’uomo ha accumulato durante le epoche della sua esistenza. In verità, se gli scrittori italiani di avanguardia fossero coerenti con se stessi, allora, per logica, non potrebbero permettersi nemmeno di ragionare con la lingua tradizionale-capitalistica. Ammetto che anche questo mio ragionamento diventa sofismo, ma mi ci costringono proprio quelli dell’avanguardia ogni volta che riesco a metterne uno con le spalle al muro.
Credo, però, che la cosa debba essere vista sotto due aspetti;uno sociologico e l’altro psicologico. Se in questo istante l’uomo annullasse le parole, la lingua, tutti i mezzi con i quali descrive e conosce il suo ambiente egli, non soltanto distruggerebbe la lingua, ma anche l’umanità. Se l’uomo non potrà più farsi intendere dicendo ’’porta” perché l’idea della parola ’’porta” è stata distrutta, non potrà più aprire o chiudere la porta perché avrà dimenticato tutta la sua esperienza e il linguaggio attorno a tale parola. Una settimana sotto simili condizioni e l’umanità tutta perirebbe; ecco perciò l’utilità della lingua che rappresenta tutto ciò che l’uomo ha imparato nel suo mezzo milione di anni sulla terra. Per il rinnovamento della lingua si possono soltanto sostituire, a quelle che vogliamo scartare, altre parole, ma a condizione che queste nuove parole siano espressioni comuni del popolo. Questo è molto difficile, e gli aderenti al gruppo di avanguardia 63 dimenticano che non c’è scrittore nella storia che abbia potuto da solo creare un nuovo linguaggio; il popolo, invece, può farlo. Dal lato psicologico, sappiamo che le parole sono abitudini, ma non abitudini acquisite attraverso impulsi rimasti ciechi, ma impulsi che sono resi intelligenti da queste abitudini.
È chiaro che molti scrittori del’avanguardia vogliano con proposte intellettuali esprimere nelle loro opere ciechi impulsi. E qui ci troviamo dinanzi a una forte contraddizione perché, o ci si abbandona completamente ad una espressione impulsiva, scendendo perciò, nel profondo del proprio io per diventare orribili vermi che strisciano nel fango del sesso, uno stato assurdo nel quale nessun animale o uomo potrebbe rimanere e suvvivere, oppure si rimane ipocritamente sotto la guida dell’intelletto agendo falsamente, perché lo scrittore intelligente che non si abbandona ai propri impulsi non può esprimerli come veramente essi sono, ma ne esprimerebbe soltanto una copia.
L’unica speranza che rimane allo scrittore è perciò quella di sublimare questi impulsi e istinti del proprio io, riconoscendo il valore di essere soggetto proprio quando questi impulsi si imbattono in un oggetto esterno, dando inizio ad una esperienza, esperienza che, ripetuta, diventa abitudine, abitudine utile e necessaria che non possiamo distruggere. Per concludere, l’individuo acquisisce queste abitudini e queste esperienze e, nella scelta per preferire l’una o l’altra abitudine, egli diventa uomo intelligente.
Questa scelta, a sua volta, sarà molto indicativa perché, se la forma delle sue parole-abitudini è rigida, egli non sarà capace di esprimersi spontaneamente; se queste abitudini-parole-esperienze sono radicate in lui debolmente, allora l’individuo balbetterà e non sarà capace di esprimersi, perché non sa quale parola-abitudine ripetere; non potrebbe essere, perciò, mai un grande scrittore.
Un contadino impara le sue abitudini rigidamente e per questa ragione è incapace di affrontare una nuova situazione che richiede abitudini più elastiche, meno rigide e perciò più adattabili e modificabili secondo il problema immediato che si deve risolvere. Naturalmente, quando per abitudine si fa sempre la stessa cosa e poi, di colpo, ci si trova davanti a una situazione nuova che richiede un adattamento delle proprie abitudini e una nuova combinazione di esse, si rimane incapaci di adattarsi. Lo stesso dicasi per i muscoli.
Un sollevatore di pesi, ad esempio, è il peggiore giocatore di pallacanestro, perché i suoi muscoli, hanno preso l’abitudine di una continua ripetizione, mentre il gioco di pallacanestro richiede muscoli che sappiano affrontare nuove situazioni. La stessa cosa vale anche per lo scrittore e le sue parole e le sue frasi che devono essere elastiche ed imparate tanto bene da dare vita ad espressioni spontanee, se invece egli non è completamente padrone di tali espressioni dovrà cercarle come se si trovasse in una stanza buia dove vuol catturare un gatto nero che non c’è.
Voglio dire con ciò che l’anima umana e la somma del suo linguaggio; togliete il linguaggio dal’uomo e avrete distrutto l’individuo perché egli sarà costretto a ritornare bestia cieca e a servirsi soltanto di impulsi ciechi per risolvere i problemi che gli premono. L’uomo, forse istintivamente è dotato di certe facoltà che gli fanno riconoscere le forme belle esistenti nel mondo. Esiste, come sembra, nel’individuo stesso una naturale guida che va incoraggiata, ma alla quale non si può dettare legge; come prova la psicologia Gestalt.
Ci sono certe forme naturali di triangoli o di cerchi che sono belli perché la maggior parte degli uomini li vede belli. C’è un accordo che non dipende dalla capacità acquisita, istruita ed esperta. E allora, quale sarebbe il modo di incoraggiare nel’uomo tale guida naturale?
Dando fiducia a tutti, al’operaio, al contadino, al’uomo semplice, allo scrittore di secondo o terzo ordine, sul concetto che egli ha di ciò che è bello e non costringerlo ad ascoltare forme a priori, nel momento in cui tende a creare una nuova espressione che si esprime con tutto il suo essere in un momento di estasi totale senza essere ostacolato da parole che non conosce perché poco usate. Sicuramente quello che sto dicendo è in netto contrasto con le opinioni create falsamente e ingannevolmente dalla stampa capitalistica e specialmente dai critici che, con abilità e con ogni mezzo, cercano di formare una opinione di massa che è sempre conveniente al gruppo che controlla la stampa. Inevitabilmente, coloro che sono stati capaci di evitare questo inganno disprezzano chi si è lasciato ingannare; essi fanno un grave errore, perché non capiscono che gli stessi mezzi impiegati dai gruppi di controllo sono i soli mezzi per raggiungere l’orecchio degli uomini semplici, e se essi vogliono rimediare al danno, devono usare questi stessi mezzi e questo stesso linguaggio.
Ma ritornando al contenuto e alla forma di un’opera dobbiamo ammettere che la migliore espressione artistica si ha quando le abitudini dell’uomo sono molto plastiche e si plasmano spontaneamente e in brevissimo tempo, essendo esse il tessuto del contenuto che si congela naturalmente sulla pagina attraverso una scelta priva di esitazione, che non è più semplice scelta intelligente di parole, di espressioni, di forma, ma una intuizione mista di sentire come un vibrare di alcune corde strumentali tutte allo stesso momento, e nessuna fuori tono; l’individuo è una somma di queste vibrazioni naturali e spontanee, l’orecchio dell’intelletto, le passioni, il sentire dell’individuo stesso. È certo che prima di giungere a una simile preparazione artistica, il poeta o lo scrittore deve aver fatto molta strada attraverso momenti artistici riusciti o falliti. È sempre da disprezzi quel’artigiano che, una volta scelta una forma costruisce la cosa in serie senza usare più né intelligenza, né intuizione.
Mi dispiace ammetterlo, ma il 90 % della poesia di tutti i tempi è stata scritta proprio così. I poeti divenuti bravi artigiani della poesia, seguono una forma — sonetto, rima baciata — proprio alla stessa maniera dell’artigiano che sceglie la forma della sedia per costruirla poi in serie. Oggi, leggendo queste poesie avvertiamo un senso di stanchezza perché risentiamo continuamente, come nelle poesie di E. A. Poe, lo stesso battito monotono che ci stanca e che può soddisfare soltanto i più pigri, disposti a vivere una esistenza monotona. Mentre è facile comprendere che le poesie di Pavese, e quelle ultime in special modo, resisteranno al tempo perché prive di qualsiasi forma a priori, esterna, perché sono poesia. La forma è l’estensione di un contenuto espresso spontaneamente ed artisticamente. La stessa cosa vaie per le poesie di Esenin per quelle di Cendras nelle quali non esiste alcuna distanza impersonale tra poesia ed uomo; non si tratta soltanto di espressione di idee, ma di passioni; ricerca cioè di esprimere l’uomo stesso.
Sono assolutamente convinto che principale scopo della poesia è proprio questo: non è il fatto che l’uomo riesca a lasciare sui fogli scritti i suoi pensieri e i suoi sentimenti ma che lasci sul foglio se stesso, dopo aver tolto tutti i veli superflui tra lui e il lettore. È possibile una cosa simile? Certamente è cosa molto difficile perché le parole una volta sul foglio, sono soltanto e sempre simboli, ma, e qui sta il miracolo della poesia, quando il tutto viene detto attraverso un momento di espressione artistica, come ho affermato sopra, otteniamo simboli che riescono a rappresentare l’uomo stesso.
Così, il lettore di un altro tempo, di un’altra generazione può riuscire a toccare l’anima di un poeta già morto, già annullato dalla tragedia della sua esistenza, da tutto quel nero che l’uomo cerca inutilmente di evitare e che solo con una poesia, lasciando cioè se stesso su un foglio di carta, può vincere almeno per un certo tempo.
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Che la poesia sia una logica sequenza razionale oppure una giustapposizione concreta di immagini e, anche se mancante di sequenze razionali, essa poesia, si completi alla maniera di Gestalt, per cui anche se le parti sono meno o più del’intero, è sempre comprensibile e completa.
Per raggiungere* uno scopo, e nel nostro caso, una poesia completa, esistono vari modi; si potrebbe seguire la logica
— uno più uno fanno due —, ma non è detto che una immagine ben descritta debba essere logica e matematica; si possono, infatti, esprimere una serie di immagini, una dietro l’altra, non aventi alcuna sequenza logica ma che saranno sempre impressioni concrete comprensibili al lettore che intuirà spontaneamente il significato della poesia. È ovvio, però, che in questo caso il poeta incorre nel rischio di creare per la maggior parte dei casi soltanto un cumulo di immagini senza alcun significato. Questa è infatti la ragione per la quale preferisco una poesia di Emily Dickinsón o di Robert Frost invece che quella di un Ungaretti o un Montale. Dickinson e Frost usarono una logica sequenza poetica di idee e di sentimenti e, anche se entrambi fecero l’errore di servirsi di una forma a priori, fortunatamente non seppero rispettarla perché il loro individualismo era più forte di qualsiasi forma prestabilita. Sono entrambi poeti soggettivi e anche se Frost qualche volta tenta di essere obiettivo, la sua obiettività descrive la soggettività di se stesso.
La poesia di Montale e di Ungaretti è invece la ricerca di una poetica irrazionale e impersonale di cui il lettore deve intuire il significato, intuire il più, cioè la poesia intera invece delle varie parti che, anche messe insieme, sono sempre meno della poesia intera. Nella maggioranza dei casi la poesia ermetica cerca di escludere il poeta dalla sua stessa poesia, aggiungendo così al’impersonalità di espressione una obiettività assurda, quasi inumana, fredda, che in Montale è una cattiva reminiscenza dei principi classici di T. S. Eliot.
Chiamo simile poetica una congiura per escludere le persone umili da un intelligente apprezzamento delle cose migliori. È certo che Montale rappresenta la peggiore espressione poetica italiana degli anni nostri perché la sua poesia ha la sola funzione di soddisfare un ristretto numero di persone ed esclude perciò la massa media e il popolo dalla partecipazione alla letteratura. Ecco come si spiega il fatto che Ungaretti e Montale non siano riusciti a scrivere più di due o tre buone poesie ciascuno, mentre Frost e Dickinson seguendo la strada semplice della sequenza logica hanno creato ciascuno un centinaio di poesie valevoli.
La poca resa dei poeti italiani è da attribuire, secondo me, alle scuole italiane e in special modo al liceo classico dove si insegna ai discepoli che più un poeta o uno scrittore scrive in forma studiata e difficile, più è valido e attendibile. Prova di quanto sto dicendo è che se chiedete ad uno studente liceale chi è il più bravo poeta italiano dei nostri tempi, senza alcun dubbio vi risponderà: Montale.
Perché risponderà così? Perché i licei sono scuole classiste. A conclusione di ciò io suggerisco ai poeti italiani di avanguardia che invece di distruggere la lingua italiana, come protesta al capitalismo, comincino col distruggere le scuole di classe quali i licei italiani.
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Che il poeta esprima odio o amore e non rimanga mai nella via di mezzo, cioè non sia mai impersonale.
Questo mio appello al poeta ad odiare o amare veramente, forse, causerà un certo allarme, ma sono convinto che un poeta il quale preferisce la via di mezzo, non potrà mai raggiungere una poetica viva e palpitante…
Ma cosa intendo per via di mezzo? La via di mezzo sarebbe uno stato d’animo in cui una persona è passiva e soddisfatta; il trovarsi in perfetta armonia con l’esistenza da non aver niente di che lamentarsi. Ovviamente si trovano in questo stato quelle persone che occupano le migliori poltrone e sono esse a difendere lo status quo: ogni cambiamento infatti, potrebbe soltanto peggiorare le cose nei loro riguardi. Essi non considerano inoltre che un buon stato di cose sotto ogni punto di vista, quasi un paradiso, invece di essere un bene, è un male perché sottrae al’uomo la soggettività facendolo diventare un oggetto. Quando perciò il poeta si trova in passività, direi quasi in letargo, quando tutto il suo essere dorme e solo il suo intelletto svolazza come un uccello, egli dà vita ad una poesia scialba, impersonale e di poco effetto, che non vibra e non fa vibrare.
L’odio e l’amore non devono essere una semplice espressione elegiaca, una sbavatura patetica inesperta come dice G. Zagarrio nella rivista « Ponte » parlando degli errori compiuti dai vari Busà ecc…
Questa specie di poesia elegiaca patetica è la peggiore che possa esistere e diventa pessima quando il poeta scappa avanti cercando di assumere una posa poetica che non sente e che non è sua, cadendo a volte nel ridicolo, perché costretto ad assumere una sovrastruttura poetica non propria, stonata in confronto alla quantità di amore e di odio che esiste nello scrittore stesso. È vero, ci sono uomini piccoli e devono contentarsi di scrivere il piccole poesie e non cercare di esprimere più di quello che sono. Perché sforzarsi ad essere diversi? Quanto meglio sarebbe se molti scrittori italiani scrivessero della loro vita borghese, dei loro desideri borghesi! Non sarebbero forse questi scritti un documento veritiero per far conoscere in futuro quello che veramente essi sono, invece di gonfiare il proprio petto e sfidare il cielo come Prometeo, falsificando tutto?
Assenza di verità è nelle poesie di avanguardia che contengono un sacco di parolacce come culo, c…, natiche ecc… Si vede subito che Testa, Perriera ed altri ostentano il loro anticonformismo e lo ostentano come una bravata di ragazzi per bene, quasi con il rossore alle guance e sempre con un grande sforzo di emozioni che rende la pagina da essi scritta deforme come una mano con cinque pollici. Certo non voglio escludere il fatto che nella letteratura esistono uomini come Baudelaire capaci di usare le parolacce o di far descrizioni vomitevoli come se parlassero naturalmente; gli uomini così ci sono stati. Ma è inutile cercare di essere volgari quando per natura si è soltanto dei piccoli borghesi perché allora si agirà da doppi ipocriti e doppi volgari. A questo punto è necessaria una spiegazione della parola volgare. Dal punto di vista borghese è volgare quel’essere umano che si esprime naturalmente senza affettazioni, un individuo cioè capace di dire chiaramente il suo amore e il suo odio. Per me questa non è volgarità ma soltanto una espressione umana. È volgare invece quella persona che falsamente cerca di essere volgare mentre è inibita da tutte le condizioni e le relazioni della società che cercano di limitare la naturalezza e la spontaneità dell’uomo.
Quando un borghese tenta di fare questo gioco allora è doppiamente volgare. Vale la pena, invece, ascoltare un uomo che bestemmia e che è volgare veramente perché si vedono i suoi nervi che pulsano e guardando nei suoi occhi rabbrividiamo perché in lui vediamo il guerriero arabo carico di odio che affonda nel petto del siciliano la sua lama e squarciandoglielo ne afferra il cuore e poi lo addenta mentre il sangue gli cola giù dal mento. Perché rabbrividiamo dinanzi a uno spettacolo simile? Perché quell’odio non è falso, è vero.
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Che il poeta-critico non lodi gli altri poeti scrittori soltanto per eccessivo rispetto ai loro sentimenti e alle loro convinzioni o perché desidera vivere in pace.
Quello dei critici italiani è un comportamento troppo signorile e direi troppo cristiano. Essi seguono due metodi; lodano dolcemente uno scrittore fino alla nausea, così che i lettori non leggono più un libro di critica perché sanno che è inutile dato che si tratta sempre di lodi verso un determinato scrittore che, generalmente, non vale niente; o ricorrono al cono di silenzio, non parlando mai dell’avversario, della persona che detestano o invidiano (io ho pubblicato alcuni libri di poesie, un saggio e parecchi articoli e ho ricevuto soltanto complimenti ed elogi; non ho ancora ricevuto una critica negativa né su me né sulla mia poesia).
Esistono parecchie riviste tecniche letterarie, capaci di aprire polemiche l’una contro l’altra, ma il discorso rimane sempre fra tecnici e soltanto pochi possono seguirlo e questi pochi spesso lo fanno faticosamente. Dalle pagine di queste riviste, gli scrittori si dilettano a creare difficili ghirigori intellettuali, parole ed espressioni scientifiche — spesso usano anche parole straniere — servendosi di parole addirittura sconosciute, come se la polemica fosse un giostrare matematico piuttosto che linguistico; una giostra simbolica invece che una lotta fra esseri umani. Direi che in molte personalità letterarie a volte affiora un po’ il carattere mafioso, perché impongono ai critici di non parlare male di questo o di quel’altro scrittore, di non toccarlo troppo da vicino, così che il discorso del critico rimane su un campo generico, campato in aria, mai toccando la persona come se le parole non avessero origine nel’uomo. Il critico è costretto a parlare soltanto di principi e, se uno non è del giro, non capirà mai quello che il critico vuole dire. Anche tra gli scrittori, naturalmente, esiste un gran desiderio di organizzare, di inquadrare, di ordinare e finanche di disciplinare i pensieri, i sentimenti. Coloro che non si sottomettono a un gruppo o non rispettano le regole del gioco vengono lasciati nelle zone oscure dell’oblìo, nelle zone da dove quello scrittore che non ha voluto sottomettersi non può esprimere il suo pensiero. Oh se invece, lo scrittore capisse che è proprio il caos a dare la spinta e a favorirlo come individuo!
Quando non ci sono autorità da riconoscere, quando nessuno è superiore ad un altro, allora e solo allora si potrebbero vedere parecchi scrittori inclusi nelle maglie di comunicazione come la TV, la radio, le riviste, i giornali ecc. Ed ecco un esempio di ciò che voglio dire: a New York ci sono migliaia di case cinematografiche che hanno ignorato tutto l’apparato e le direttive di Hollywood, esse si contentano di comunicare con mezzi indipendenti; rappresentano una comunicazione non ufficiale, di contrabbando direi, perché non rispettano né le leggi né i regolamenti della stampa di largo consumo- che esclude tutti i testi di Henry Miller e di altri scrittori come lui che parlano contro la società capitalistica. Il caos incoraggia la situazione locale, il governo locale e, in ultimo,, la libertà individuale; scoraggia le direttive di un punto di accentramento, di una unica fonte di opinione, e dunque non saremmo costretti a vedere i films di Sophia Loren solo e non ascolteremmo più Moro e soltanto Moro, Pasolini, Moravia, Sanguineti ecc…, e nella città di New York milioni di masse-pecore non leggerebbero più soltanto quei giornali che sono frutto del grande giornalismo. La migliore espressione di caos fu proprio quella del periodo della guerra civile francese o della rivoluzione russa dei primi tempi, quando ogni uomo aveva la possibilità di dire la sua opinione nei congressi e nelle commissioni, nelle riunioni che si tenevano in tutto il Paese. L’uomo semplice partecipò attivamente, per la prima volta, alla vita della comunità e della nazione, divenne oratore e persino scrittore e si scoprirono migliaia di persone capaci di scrivere, di organizzare e di disorganizzare. Mentre l’uomo è un individuo, mentre ancora può resistere ai tentativi di amalgamarsi con altri, egli deve incoraggiare il caos e la disorganizzazione, deve rifiutare di accettare qualsiasi schieramento di cittadini numero, succubi di uno stato che sia quello americano o quello russo.
Che l’uomo avverta il pericolo di una società moderna, inclusa quella letteraria, di dimensioni mastodontiche, dove centinaia di milioni di esseri umani devono sottostare e ossequiare una autorità centrale, essendo troppo deboli come individui. Direi che ogni uomo che ama la libertà, sia in campo letterario che in quello sociale e politico, non dovrebbe fare altro che sabotare tutti i mezzi della società moderna affinché quelli che stanno a capo vengano presi dal capogiro e perdano la fiducia nell’ordine di premere il grilletto del fucile dinanzi alle masse di studenti ed operai in contestazione.
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Il poeta deve sentire un naturale amore per il caos e per la confusione, specialmente in campo letterario e non desiderare che un ambiente qualsiasi si sistemi disciplinatamente per soddisfare un pigro senso di ‘ organizzazione e di ordine che alloca tutti in posizioni fisse bloccando una rapida inter-relazione tra i punti estremi del mondo letterario.
Dovrebbe essere riconosciuto, una volta per sempre, che lo scrittore non è una persona di eccezione. Oggi ci sono migliaia, o meglio, centinaia di migliaia di scrittori, perché è finito il tempo in cui leggere e scrivere era privilegio di pochi; oggi perciò essere scrittore non è più una posizione di privilegio. Scrivere dà allo scrittore una grande soddisfazione e questa, generalmente, è la ragione per la quale lo scrittore scrive. Purtroppo ogni uomo ha in sé parte del fanciullo e vuole essere ascoltato, ammirato e come il bambino pretende la attenzione dei genitori, così lo scrittore vuole l’interesse del pubblico su quello che egli è e sui suoi principi. Inoltre egli si illude di poter “suvvivere” al di là della sua stessa morte e rimanere nella memoria della gente, nei libri e magari in una sola poesia. Nel desiderio vivissimo di comunicare con i suoi simili, lo scrittore si serve del libro e più facilmente di riviste e di giornali; questo è un mezzo facile per imporsi al’attenzione degli altri, più facile che scendere in piazza, fermare il traffico, costringere i passanti ad ascoltarlo col pericolo di subire le conseguenze di una azione purtroppo molto scomoda; un metodo che non osserva regole, come Socrate che non osservò mai una regola fino alla sua condanna a morte. È chiaro che molta gente oggi voglia far tacere i giovani che hanno riscoperto il valore della protesta e della contestazione in piazza e nel foro; perché proprio il foro è il ’’libro” che tutti possono leggere e che non può essere controllato o inserito nel sistema del’establishment e proprio questa è la ragione per la quale l’autorità combatte con ogni mezzo questo modo di espressione.
Lo scrittore, invece, è un pigro, è un pusillanime, se ne sta dietro le quinte, non si espone come i giovani di ora, come l’oratore estemporaneo, come Socrate che non scrisse mai un libro. Non è facile nemmeno quello che fece Cristo quando scese nella sinagoga per dire ciò che pensava anche dinanzi ai dotti. Il mito dello scrittore non è altro che una aureola creata attorno a lui e che bisogna far cadere affinché lo scrittore rimanga quello che veramente è: uno che ha avuto l’opportunità di vendere i suoi libri perché inserito nel’establishment del mondo; uno che a forza di gomitate e con smisurata ambizione ha fatto in modo che il suo libro si trovi sugli scaffali di ogni libreria. Che gli scrittori accettino questa ridimensione della loro importanza, che riconoscano il coraggio di un giovane che scende in piazza con un cartellone di protesta; che valutino la decisione di un oratore estemporaneo il quale, più di qualsiasi scrittore, incoraggia gli assalti contro l’ordine delle cose e contro la legge politica dell’uomo.
Compito del vero scrittore è prevenire i pericoli e avvertire i giovani contestatari che presto o tardi coloro che detengono una poltrona si organizzeranno e cercheranno la chiave per ammanettare e mettere a dormire chi sente il bisogno, per amore o per odio, di protestare contro una esistenza e una società organizzata male. Essi attaccheranno sicuramente prima a livello psicologico, cercando di convincere gli universitari, gli scrittori, i poeti ecc… che la protesta viene da coloro che sono” psicològicamente” squilibrati e che la contestazione è un pericolo non soltanto per la società ma per gli stessi contestatori. Cercheranno di creare in chi protesta un senso di dubbio e di inferiorità. E se questo non basta, cominceranno a trattare l’argo mento a livello pseudo-scientifico, cioè sociologico e, con statistiche alla mano, cercheranno di provare che essi hanno ragione. E se con questo agire non sono riusciti ancora nel loro intento, mobiliteranno le forze più rispettate del mondo capitalistico, gli scienziati, i quali, senza dubbio, riusciranno a provare che in una società di uomini il contestatore non può e non deve esistere.
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Importante è che lo scrittore scriva non con lo scopo di fare arte ma perché ha una ragione ben precisa; se non ha niente di valido da dire che rimanga in silenzio.
Creare artisticamente potrebbe essere per alcuni la sola ragione per scrivere; ma che in questi casi ciò rimanga chiaro e non venga ricoperto da una struttura, da una complicata spiegazione dell’arte con il solo scopo d’ingannare il lettore di massa. Ovviamente questo tipo di arte può soddisfare soltanto esigenze immediate e temporanee. L’uomo ambizioso scrive così come un altro esercita la professione di avvocato, di medico o di ingegnere; per lui scrivere diventa una occupazione, una attività. Questi artisti mestieranti con il controllo dei mezzi di informazione ottengono il sopravvento sui veri creatori d’arte e di capolavori riuscendo così anche per diversi decenni a tiranneggiare sul’intero ambiente letterario nazionale e qualche volta anche internazionale, come hanno fatto quegli estremisti anglosassoni che condussero la letteratura al vuoto simbolismo surrealistico.
Una gran parte della letteratura italiana esprime proprio questo vuoto avendo messo sul trono mitico del genio Mallarmé e Valery per sviluppare poi lo stile ermetico che, alle sue conclusioni astruse, per i lettori non ha alcun significato, perché il significato della poesia rimane chiuso nel’animo del poeta stesso. Ed è logico perciò che oggi in Italia prevalgano scritti come quelli dell’avanguardia 63. Una interpretazione veramente artistica della vita potrebbe essere data dalla esperienza artistica che proietta la comunicabilità al di là degli scopi momentanei, come la meta di semplice partecipazione. Forse l’arte potrebbe essere la ricerca dell’individuo di scoprire il bello nella esistenza e in se stesso. Ma queste riduzioni in termini artistici non devono essere proiettati in avanti in modo da creare una forma modello quasi mitizzata e poi strumentalizzata che costringe gli scrittori ad attenersi a schemi non più elastici, non più adeguati a un momento artistico che richiede libertà di espressione pragmatica e che, senza dubbio, è il miglior modo per risolvere una situazione artistica per un individuo-artista-creatore-scrittore.
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Riconoscere in ogni individuo una capacità artistica che, incoraggiata, presto o tardi, dopo molte esperienze, porterà lo scrittore e il poeta a scrivere qualcosa di valide. A questo punto, è importante che l’individuo curi la sua capacità di respiro; se egli fisicamente è forte il suo dovrebbe essere un lungo verso, una lunga frase; se invece è delicato e femmineo, il suo verso sarà più semplice e meno comulativo e non alla maniera di Alien Ginsberg (le donne perciò, anche se hanno lingue lunghe avranno sempre versi corti).
È assolutamente importante che lo scrittore prenda una determinata posizione, che trovi, perciò, nel’esistenza un posto da dove parlare e che questo suo parlare abbia una propria angolazione che partendo da un punto X tende a una linea Y, tracciando una strada che nessuno prima di lui ha mai tracciato. L’individuo può prefiggersi dei traguardi, se questi sono suoi e rappresentano il suo modo di risolvere i problemi politici, religiosi, scientifici o culturali. Soltanto con questi scopi i suoi scritti avrebbero un valore ben preciso.
Abbiamo ascoltato critici che difendono una posizione democratica capitalistica-liberale-etica-filosofica e parlano dei pericoli che incorre uno scrittore quando si prefigge certi traguardi di libertà; essi non fanno altro che limitarlo entro una certa ideologia economica, politica, ecc… Essi parlano in questo modo perché non vogliono che le opere e l’arte di uno scrittore servano ad istruire ideologicamente un popolo. La sola speranza che ci rimane è che siano proprio gli scrittori a creare un ambiente letterario e non coloro che egoisticamente strumentalizzano i mezzi di diffusione per incatenare le masse in un conformismo che ne rende facile il controllo e che porta le stesse masse a fare il gioco di guerra e di sfruttamento voluto dai pochi.
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Prova della validità di una poesia e la sua comunicabilità attraverso la recitazione; concetto tutto all’opposto del pensiero dell’avanguardia
— Gruppo 63, Gruppo 70 ecc… —, che danno una assurda importanza al lato visivo.
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Che si accetti, una volta per sempre; il principio di ridurre la poesia nei suoi termini più semplici e che questo sia considerato un principio artistico.
20
Che non si tratti di una espressione schizofrenica, cioè di una involuzione della espressione che fa parlare il poeta con se stesso invece che con un interlocutore esterno.
21
Che la poesia sia principalmente una ricerca dell’esistenza e dell’uomo nella esistenza, con lo intento di scoprire una strada pragmatica cioè, le migliori possibilità, per la “suvvivenza” dello uomo per la creazione di scopi valevoli per continuare l’esistenza. Che l’uomo trovi eventualmente la sua eternità nella stessa esistenza e non annulli se stesso nella incomunicabilità,nel nulla, nel silenzio.
(«Trapani Nuova», 14 gennaio 1969)
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